La Morte sull'Albero

Potrei rifiutarmi di scrivere queste mie memorie, e soffiare via la fiamma nella lampada e, poi, coricarmi nel mio giaciglio, di modo da accettare questo abisso durato decenni della mia vita come espressione di un fato oscuro, eppure vi è qualcosa... Là fuori, c’è qualcosa che si protende oltre a ciò che per noi sono paesaggi sublimi, c’è una sorta di arcano.

Questo è solo un rigetto per non farmi stringere in mano la pistola nel cassetto alla mia destra, per non portarla alla tempia con un gesto repentino, bisognerà pazientare fino a che il polso non si sarà stancato.

Vivevo in una casa isolata, fatta di legno e di speranze.

La mia famiglia aveva creato quel giaciglio di vita, comprando con il sudore una terra fertile, in realtà, più precisamente, fu l’oggetto di un acquisto fatto dai miei avi, era nascosta fra le montagne, in una vallata dove il vento gioca scherzosamente con le correnti e l’aria accarezza i fili d'erba, lasciando sbocciare nel vento i piccoli dei soffioni.

Le margherite erano il passatempo di mia Sorella Claudy, una delicata fanciulla dai boccoli di grano e dalle gentili fossette nelle guance, il suo delicato nasino a punta era la gioia delle farfalle che, leggere, si posavano proprio lì come ad attendere un suo movimento, aveva un aspetto gentile e slanciato, la sua femminilità faceva sì che il suo aspetto ed i suoi modi rassomigliassero a quelli tipici di una donna che conosce finemente gli ambienti del lusso.

La osservavo dalla finestra della nostra camera, ricordo quando si chinava lentamente per cogliere quelle piccole creaturine, mentre Armand, nostro fratello maggiore, era uno scapestrato che si trastullava nel procurare tormenti a Claudy e nel deridermi per la mia muscolatura visibilmente leggera, magra ed esile.

I capelli brunastri di Armand erano sempre scompigliati o sporchi, le lentiggini che illuminavano il suo viso, raggiunta la pubertà, lasciarono il posto ai bubboni e le sue spalle, già squadrate sin dalla tenera età, si formarono quando divenne un ragazzo, poi la fortuna del tempo e dell’età ne fecero un uomo dalle fattezze affascinanti, io non ho mai smesso di rammentare a me stesso come nostro padre, il signor Burbè, fosse solito portarlo con sé alla segheria dove egli lavorava e che, alla tenera età di otto anni, Armand si occupava già di caricare e di scaricare il legname.

Io ero il più piccolo, in assoluto, un fanciullo giovanissimo ed inesperto che voleva vivere tutto il candore e la violenza della montagna.

Ines, nostra madre, era l'unica che si interessava a come mi sentivo, mi seguiva negli studi della scuola, le restavo vicino anche quando puliva le stanze della casa, mia sorella e io eravamo gli unici a poter andar a scuola, mentre Armand lavorava per mio padre, vivevamo la nostra vita semplice, ad una certa distanza da Grimantez, un paesino dal sapore folcloristico, situato al confine con l'Italia, nelle Alpi, vicino alla Val D’Aosta.

Mia madre era un angelo, il suo sorriso mi faceva brillare gli occhi.

Le mie erano le parole di un bambino, eppure risuonano, perfino adesso, così veritiere.

Armand e Claudy erano sempre stati molto uniti e ovviamente mi volevano bene, ma non mi capivano, pareva che accettassero il fatto che io avevo il loro stesso sangue, ma nulla di più, sapevo che mi guardavano con occhi diversi, come incuriositi, ma allo stesso tempo schivi.

Sapevo, fin da bambino, di avere predisposizioni e interessi diversi, come la lettura o il fantasticare, Claudy si complimentava con me quando le raccontavo che nel fiume viveva una stupenda ninfa e, per quanto le spiegassi cosa fossero, lei si dimenticava sempre, per Armand le mie fantasie belliche erano le sole in grado di destarlo e di spingerlo ad esporsi con qualche commento, mentre il resto era, a parole sue, un inutile spreco di fiato.

Trascorsi sette anni, mi rifiutai di uscire a giocare con i miei fratelli, forse è folle pensare che un bambino, in quella landa dipinta dai più grandi pittori della storia, non si potesse divertire, ma c'era qualcosa che mi disturbava, quando partivo per la scuola ero contento, salivo sul carretto con mio padre e con i miei fratelli: Claudy ed io a scuola, Armand diretto alla segheria con il signor Burbè.

Mio fratello era felice, ma non mio padre, il quale era solito tentare di convincermi a lavorare con lui dicendo che gli servivano altre braccia, io volevo studiare e imparare, non mi importava di sollevare la legna, lo disturbava il fatto che stessi in casa con mia madre.

Mamma, quanto mi manchi.

Diceva sempre che un uomo deve vivere all'aria aperta, non al chiuso come le donne e la servitù.

Faceva sempre questi discorsi, ma eravamo dei campagnoli, anche a tavola e, come al solito, mio fratello incitava il signor Burbè, mentre mia sorella e mia madre ridevano, si imbarazzavano, talvolta pensavo che Claudy fosse molto simile a nostra madre.

Bisogna sapere che nella nostra proprietà c'era una quercia, lontana cinquecento metri dalla nostra dimora

Un Rovere.

Ricordo ancora il gusto delle sue ghiande verdognole.

La sua corteccia era chiara e d’estate si adornava di migliaia di foglie, mentre d'inverno cadevano, tutte, lasciando spoglio e nudo un albero.

Un albero morto, i cui rami, tutti, si dirigevano verso l'alto, come se qualcosa stesse cercando di abbracciare il cielo in ogni istante della vita.

Quando avevo cinque anni, giocavo sempre fuori, raccoglievo le margherite in compagnia di Claudy, le regalavo tutti i denti di leone che trovavo, quando ero con mio fratello giocavo alla guerra, in una sorta di conflitto immaginario nel quale ci battevamo con bastoni in duelli ricchi di colpi drammatici, dopo l’ultimo scontro giungeva nostra sorella, solitamente mio fratello vinceva, ma ciò non deve far intendere che il rapporto con lui fosse attraversato da chissà quali prepotenze, anzi, egli era premuroso con me, mi insegnava a pescare, a lanciare e a far rimbalzare i sassi nel fiume, mi fece imparare i nomi degli uccelli e degli insetti, forse avrebbe dato la vita per me, eppure mi sentivo visto come uno straniero.

Queste considerazioni sui rapporti con i miei fratelli rapivano il mio pensiero.

Potrei essere io il folle che ha visioni contrastanti? È possibile che io sia maledetto per ciò che accadde quel giorno? I pensieri che ho in mente possono essere solo una mia fantasia?

Un giorno, Armand ed io decidemmo di fare una corsa, una gara a chi arrivava per primo alla vecchia quercia, mio fratello sarà stato anche più forte di me, ma era sicuramente meno veloce; quindi, lo superai con poco dispendio di energie, mentre lui, dopo un ultimo slancio, si fermò con il fiatone per poi appoggiarsi a terra stanco, ma non voleva arrendersi.

Lo osservai dalla collinetta mentre cercava di raggiungermi, arrancando, tirandosi su e poi in avanti, io sorrisi e guardai le nuvole e il sole e pensai a quale fortuna io potessi avere ricevuto, alla gioia di cui godevo, perché avevo una vita tranquilla, sana e spensierata.

Un colpo di venticello accarezzò il mio viso.

La nostra casetta di legno, le montagne in lontananza, i regni di ghiaccio, degni delle avventure degli eroi, tutto questo mi diede un benessere tipico della fanciullezza, tanto da potermi sentire libero come un’aquila nel maestrale.

All’improvviso mi sentii coperto da un'ombra che prima non era lì, mi oscurò completamente, così mi voltai, incuriosito ed impaurito da ciò che mi oscurava.

Una bolla nera.

Era tozzo ed enorme, appollaiata su un albero, seduta, avvolta in una sorta di lunga coperta che le copriva anche il capo. Lo guardai con occhi lucidi e più contorcevo il mio pensiero, più venivo come attirato dall’oscurità di quella mantella che si muoveva con leggerezza poco sotto il ramo scricchiolante sul quale quell’essere si posava; un enorme essere dalla forma ovale: ora la sua veste d’ebano toccava il suolo, proprio attorno al tronco dell’albero.

Non esisteva più, la vecchia quercia, l’albero amato, il ricordo nella danza dei ricordi d’infanzia, come se la sua natura di albero fosse mutata o qualcosa avesse indotto un mutamento.

Non aveva occhi, non aveva zampe, non aveva naso, non aveva orecchie, non aveva labbra, solamente un'enorme bocca piena di denti lunghi tanto quanto stalattiti, frastagliati in ogni dove, sconnessi, così affusolati, affilati ed appuntiti, si muoveva una lingua biforcuta che schioccava al vento, assordandomi, poi si bloccava, poi riprendeva per qualche secondo; Fu per me l’eclissi, mi fece smetter di respirare e di pensare, pur non avendo la sua attenzione, il mio cuore galoppava, mi sentì come se stessi per vomitarlo e trovarmelo fra le mani. Un incessante formicolio mi invase agli arti, le mie ginocchia parvero sbriciolarsi l’una contro l’altra e le mie dita affondarono nel terreno.

Non vedevo la sua pelle, ma solo quelle fauci ultraterrene che avrebbero potuto mangiare un cavallo intero con un morso, ad un tratto la sua veste smise di lasciarsi cullare dal vento, come se non si fosse mai mossa, come se l’averla vista oscillare pochi istanti prima fosse stata una mia illusione e la cosa che più mi spaventava, oltre a quel suo essere così distorto come un incubo di Dio, era il fatto che potesse proiettare un'ombra dinanzi a me. Mi gettai a terra rischiando di spaccarmi i polsi e urlai con tutta la forza che avevo nella gola, speravo e volevo che quei miei gesti lo cacciassero via, non lo volevo vedere.

Era raccapricciante, faccio ancora fatica, a distanza di tanti anni, a scrivere di lui.

Vi sono creature simili nelle enciclopedie, come il Beholder, ma questo non aveva né occhi né tentacoli.

Ho ancora paura.

Mio fratello corse da me, si guardò attorno senza capire e senza vedere, cercando di calmarmi, ma io volevo che quel mostro sparisse, era immobile, non capivo se mi guardasse o no, non faceva niente, allora Armand, istintivamente, prese a schiaffeggiarmi, ma nulla riusciva a placarmi, ad un certo punto rischiai di sputare sangue dappertutto a causa del dolore alla gola, arrivò mia sorella insieme a mio padre che, subito, si mise a cercare, ad investigare con lo sguardo, incapace di capire.

Mi portarono in casa, nella stanza dei miei fratelli, la cui unica finestra dava proprio su quell’albero, ci volle tutta la notte prima che riuscissi a prendere sonno, ma lo rivedevo, talvolta come un puntino nero e il sangue mi si gelava, certe volte, invece, non c'era, ma il pensiero che potesse tornare mi distruggeva le interiora. Nei giorni seguenti a quell'avvenimento il mio umore e i miei pensieri cambiarono, io cambiai e lo dimostrai iniziando a rifiutare qualsiasi invito ad uscire.

Venivo sgridato quando raccontavo quello che avevo visto, perché nessuno mi credeva.

Mi visitarono i dottori, i quali consigliarono ai miei genitori sempre misure più invasive, per questo mia madre mi pregò di mentire; forse lei voleva credermi e temeva che, dandomi voce e fiducia, avrei sostenuto argomenti che avrebbero potuto indurre qualcuno a consigliare il manicomio, così ingoiai il mio orgoglio e ammisi che non vi era alcun mostro: gli esperti sparirono, ma non la mia angoscia e la mia incomprensione.

Avevo quattordici anni quando Armand, dopo anni ed anni trascorsi unicamente in casa e a scuola, mi convinse ad uscire con Claudy ed alcuni amici, ci dirigemmo verso una radura situata all’ingresso di un boschetto, io avevo accettato di unirmi a loro perché ero conscio della lunga distanza fra la nostra casa e il luogo verso il quale saremmo andati, a me interessava solo essere lontano da casa, mi interessava tanto quanto l’amara possibilità di fare ritorno nel luogo dell’avvenimento.

Quell'essere compariva solo lì.

Portammo con noi di che bere e di che mangiare, bevemmo fino all’esagerazione; quindi, ci venne voglia di ballare e ballammo, ballammo freneticamente, Armand volle raccontare una storia dell’orrore, il cui contenuto ricalcava perfettamente lo svolgersi di ciò che mi aveva segnato profondamente, tuttavia egli esagerò, romanzò e omise; io sentendomi ridicolizzato non presi di buon grado questa sua scelta.

Ero solo con le mie paure, circondato dalle risate degli amici increduli; quindi, qualcosa si accese in me e, per la prima volta dopo un lungo periodo di apatia, mi innervosii e la presi sul personale.

Claudy tentò di fermarci, ma Armand era fin troppo fradicio, tanto da non riuscire a contenersi, per fortuna non ci picchiammo, ma ci insultammo, egli disse che quella mia fantasia era nulla in confronto a un misfatto avvenuto anni addietro, tutti, subito, ne furono incuriositi.

Armand raccontò la favola del vecchio George, la storia di come un uomo comune, una sera, uccise sua moglie e, disperato ed in preda al delirio, cercò i suoi figli senza trovarli perché gli aveva fatto esalare lo spirito prima ancora di prendere la vita della propria amata.

Si diresse in paese armato di un fucile e di un’accetta.

Durante quella notte uccise molte persone, aveva un sorriso stampato in volto e gli occhi pieni di lacrime e, ogni volta che ammazzava qualcuno a colpi di scure, chiedeva istericamente di essere ringraziato.

Si videro teste spaccate in due come meloni, famiglie massacrate, cadaveri sparsi, budella strappate dei corpi, arti frantumati o lacerati, lo scempio variava a seconda dell’arma che utilizzò.

Alla fine, la disperazione divenne un desiderio di vendetta popolare o, secondo altre versioni, i gendarmi lo uccisero, io ascoltavo Armand ed ero sempre più nervoso, il mio sguardo era mesto e la sua storia mi pareva priva di senso, tuttavia, nei giorni successivi, mi fece riflettere su ciò che può avere origine nella mente umana, definendo un volto alla dama della follia, ma per quanto questa premura fosse atta a darmi sollievo e comprensione, dovetti rifuggire quella sua visione. Il male che mi si attanagliò alla gola poteva avere di umano solo l’abisso da cui fu partorito, poiché vi era in quell’essere un concentrato di oblio e curiosità, così allo stesso modo, suscitava i classici sentori della morte terrena e la dannazione eterna. La comparsa di quell’ombra pareva aver deposto un uovo oscuro nella mia carne.

Proprio per questo, a seguito di quella sera, nonostante la mia rigidità per l’imbarazzo che avevo subito, Armand non si allontanò da me, perché egli, raccontando quella storia, voleva dirmi che la vita è imprevedibile e che le cose brutte accadono, ma ciò che io avevo vissuto doveva essere accettato come atto di fede, non come un dato di fatto.

Gli anni passarono, avevo ventidue anni quando mio padre morì a causa di un incidente durante il trasporto di un carico di legname, ciò avvenne quando l’imbracatura che sosteneva un carico di tronchi si ruppe e questi rotolarono lungo la scarpata in fondo alla quale si trovavano i taglialegna, fra questi vi era mio fratello che fu salvato proprio da mio padre.

La Grullì & Co., l’azienda per cui la mia famiglia lavorava, elargì un lauto risarcimento grazie al quale Armand, sotto mio consiglio, investì al fine di creare una piccola fortuna per la nostra famiglia e per nostra madre, con il passare degli anni e con l’avanzare, o meglio, il progredire della maturità si spogliò di quei modi tipici del signor Burbè ed iniziò ad abbracciare le lettere e i conti, predisponendo e formando le attitudini di una nuova personalità che, negli anni a venire, sarebbe diventata una delle più conosciute nel panorama economico locale.

In quel periodo studiavo economia, mia sorella faceva provini su provini per diventare un’attrice, motivo per cui si era trovata costretta a lasciare casa, mio fratello lavorava incessantemente e senza concedersi alcuna forma di sollievo, non faceva altro che risparmiare allo scopo di acquistare le quote dell’azienda, voleva appropriarsene, non ne parlava mai ma io sapevo che si sentiva in colpa per nostro padre, o più precisamente voleva renderlo orgoglioso di lui.

Dopo l’incidente mia madre aveva perso il suo sorriso, Armand ed io eravamo sempre stati presenti per lei, ma non ero in grado di capire come potesse amare così tanto il ricordo di un uomo beone e sbruffone, e pian piano mi accorsi di quanto poco conoscessi quel vecchio.

Armand mi insultò al funerale, dicendomi che, insensibile com’ero, non avevo diritto di criticare le scelte di nostro padre, non me ne stupii, ma aveva trascurato tutto per stare con lui, ignorando le ambizioni di sua figlia, così come il mio bisogno di essere creduto. Fu un uomo incapace di poter dare qualsiasi conforto, atto solo a dare complimenti per successi, o insoddisfazione durante i fallimenti, ignorando apertamente e volutamente qualsiasi realtà al di fuori della sua porta.

Quando mi laureai, poco dopo mio fratello divenne proprietario delle segherie della regione, io decisi di aprire un'attività commerciale operante nel campo dei trasporti per piccole aziende come quella presso la quale mio fratello aveva lavorato, le nostre capacità unite insieme, la pragmaticità ed il senso del lavoro manuale di uno e le competenze da commercialista dell'altro, nell’arco di poco tempo, portarono ad un raddoppiamento delle entrate.

Nostra sorella partì per l’America e non la rividi per molto tempo.

Un giorno, mentre mi trovavo a casa, decisi di fare una cosa. Volevo vedere lo studio di mio padre. Mia madre e mio fratello dormivano da un’ora. Scoprii che mio padre teneva dei diari, dove segnava le sue giornate. Scriveva poesie, annotava ciò che colpiva la sua attenzione, ad un tratto, mentre sfogliavo e frugavo qua e là, un diario mi colpì, pareva come gli altri, ma aveva scritto sulla copertina i nostri nomi. Prima di aprirlo, credetti di trovarci le solite lusinghe ad Armand, le belle parole a Claudy e le lamentele su di me; invece, si rivelò un libro carico di ricordi, colmo di tutte quelle parole agognate e mai ascoltate. Trovai annotata la data di quel giorno così straziante e non potevo crederci, ora riporto, copiando manualmente, ciò che vi è scritto:

Caro Diario,

Oggi qualcuno o qualcosa ha spaventato il mio piccolo Edgar, non so cosa sia stato, ma non l'ho mai visto così spaventato. Giuro su Dio, la farò pagare a chi me lo ha ridotto così quel giorno.

(Risi, perché lo trovavo patetico: bisogna sapere che negli anni della giovinezza ero divenuto arrogante, sicuro di me e dei miei successi, la mia carriera mi aveva quasi fatto dimenticare quell’abominio, così mi ingannavo; sfogliai senza pensare, il mio sguardo, sino a quel momento divertito per ciò che la mia mente leggeva ed intendeva, cadde.)

Non so più cosa fare, non so più come comportarmi. Non posso vedere Edgar così! Chi gli ha tolto il sorriso? Chi?! Era così felice, era così gioioso, adorava correre con suo fratello, Armand mi veniva sempre a raccontare di tutte le loro avventure, adesso Edgar passa il tempo a ricordar momenti che non tornano, so bene che Edgar è un ragazzo forte, ma è così chiuso in sé stesso, la mia cara Ines passa molto tempo con lui e io ne sono felice, ma vorrei rivederlo con i suoi fratelli. Armand viene a lavorare con me solo perché non può veder suo fratello, si sfoga con me. Io non posso veder così i miei figli. La piccola Claudy sembra cambiata dopo quell’accaduto.

Signore, ti prego aiutami, non so più a chi rivolgermi per il bene dei miei figli, perché il mondo pare cadermi addosso e girare come un uragano.

(Lessi ancora, e ancora.)

Mio figlio sta creando il proprio futuro, sono molto orgoglioso di lui, Claudy è un’attrice e Armand è il migliore della segheria, posso dirmi orgoglioso di loro, anche se il ricordo di quell'evento mi tormenta ancora, pare che abbia scavato come una voragine che ora divide me ed Edgar.

Queste potrebbero essere le mie ultime lettere, esattamente come dice un poeta, la mia malattia, che il dottore chiama artrosi, mi sta stroncando le mani e i polsi e inizio a temere che farò fatica persino a lavorare, per fortuna Armand sta avendo un occhio di riguardo per me, gli devo molto.

Mia moglie è bellissima, i miei bambini sono grandi. Sono molto orgoglioso di loro. Il mio unico rimpianto è di non aver potuto proteggere Edgar.

Era malato, soffriva di artrosi e neanche lo sapevo. Non se ne andò per questo, fu per l’incidente, continuava a compiere un lavoro deleterio. Per noi. Armand e io potevamo provvedere alle cure, è stato uno stupido orgoglioso. Non disse mai di stare così. Ci sono molte cose che non ho mai accettato, e io, ora, fluttuo, sto senza contatto, mi sento come in un limbo.

Mi mancò il respiro, mi sentivo soffocare. Non volevo credere che tutto quello fosse vero, non poteva esserlo. Imprecai contro me stesso. Mi morsi una mano dal dolore.

Mi alzai in piedi, mi aggrappai alla scrivania e, ponendo la mano per alzarmi, smossi delle vecchie carte nello studio e notai una scritta. Un vecchio giornale, di molti anni fa, recava questo titolo: "Commemorazione delle vittime del genocidio causate da George Burbè."

Il vecchio George, ma non poteva essere proprio lui!

Feci delle ricerche sul materiale di mio padre e, così, venni a sapere che era un mio trisnonno, io ero imparentato con lui, aveva comprato la proprietà nella quale eravamo cresciuti.

Non potevo crederci, non era possibile, il brivido che correva lungo il mio corpo era la cosa più concreta del mio mondo interiore. Mio padre doveva aver cercato a fondo su di lui, probabilmente fu anche schernito per quella disgrazia. Probabilmente cercava un modo per ristabilire il nostro nome e dovetti concederglielo, per quanto ignorante fosse, non era sicuramente uno stupido o uno sprovveduto. Aveva documenti di varie biblioteche, con diverse lettere di richiamo, addirittura rintracciò documenti riguardanti la gendarmeria e varie segnalazioni. Doveva averle pagate profumatamente.

Scoprì che George era un pittore e, da quel che si diceva, molto talentuoso. Ciò spiegava anche i magnifici quadri appesi nello studio e nella cucina, dei quali fin da piccolo io me ne vantavo con i miei compagni a scuola, motivo per cui mia madre mi ripeteva continuamente che dell’arte non c’è da fidarsi. Pur sapendo questa triste realtà, non ho mai smesso di apprezzare quelle opere d’arte, tanto di averle portate con me nella mia dimora, ma realizzò di esserne incantato. In questo mio momento di sanità vi dico bene che sono creature, le quali si nutrono proprio della nostra attenzione ed animo, sono stati proprio partoriti per questo, per cibarsi di noi., eppure, non me ne posso liberare. Sarebbe come lasciare un infante in qualche cassonetto e sarebbe tremendo macchiarsi di tale abominio. So che mi osservano, non vogliono essere abbandonati, ma allo stesso modo… mi terrorizzano, poiché di umano vi è solo l’opera, il senso, ma non l’anima. Per quanto le opere di Burbè fossero in realtà appaganti, come se avessero catturato i sospiri del vento e intrappolato i ghiacciai, vi si annidava un parassita, il quale desiderava solo nutrirsi di sguardi e attenzioni, fino a spolpare la carne di chi l’arte, non può produrre. Tutto questo però non fugava il mio dubbio: Perché un uomo con tale dono, sarebbe sprofondato nella più totale pulsione omicida?

Quando acquietai la mia mente da quelle ricerche, scoprì che la mia stanza, non era l’unica ad avere una finestra verso la quercia.

Il mio cuore cadde in una morsa. Mi parve di scrutarlo nel suo nido fatto di pura angoscia. Questa mia rassegnazione, questo nuovo limbo, mi portò ora a desiderare di comprendere questo demone e fu come se il suo seme germogliasse, inondandomi di pensieri, idee e fantasie, fin ora rinnegate dalla mia coscienza. Credetti che se gli uomini non potevano parlare liberamente dei loro diavoli, allora l’Arte lo avrebbe fatto per loro.

Decisi di scrivere alcune poesie, per una volta seguii l’esempio di mio padre, non riuscivo a credere che proprio lui, il quale sembrava non aver mai provato alcuna empatia verso i cuori e i pensieri poetici, potesse essere così innamorato della cultura. Il desiderio di scrivere nacque in me e diede inizio ad un nuovo periodo dell’angoscia il quale, col tempo, mi resi conto che mi dava non so quale strana ebrezza, gusto, fu come passione carnale e non sentivo la necessità di accumulare successi, di diventare uno scrittore, ma questo fu solo un altro mattone di carta prima del mio tracollo.

Mia madre morì all’età di trentasei anni.

Mio fratello ed io eravamo al suo capezzale: lei era felice per noi, disse a mio fratello di puntare sempre più in alto, a me disse di affrontare le mie paure. Spirò subito dopo. Nei suoi ultimi istanti di vita, fui travolto da un vortice d’emozione, il quale mi parve come il tornado del Secondo Girone Dantesco: provai un senso di smarrimento, mentre il mio animo veniva sballottato in ogni antro dei miei sentimenti; nonostante ciò, il vento si placò quando lei morì, trasformando da lì a poco ogni stanza in cui entravo in un rifugio secco e dal cielo sbiadito.

Nostra sorella non venne, non mandò neanche una lettera, so solo che si trovava in America. Armand prese i miei consigli alla lettera e si rimboccò le maniche. Io mi diedi all'alcolismo. Mia madre fu una roccia. Non capivo più nulla. Le mie aziende erano gestite da persone qualificate, io dovevo solo comportarmi da signore, ma ben presto male lingue iniziarono a girare e l’unico mio ambiente rimasto furono i salotti letterati, i quali, parvero divenire sedute spiritiche, atte solo a donarmi a chissà quale essere in sacrificio per la sua gola.

Le mie poesie e scritti stavano iniziando a circolare, ma ciò non mi piaceva. Mi sentivo vuoto. Così, in un giorno di lucidità fisica e mentale decisi di avverare l'ultimo sogno di mia madre, ossia di affrontare le mie turbe.

Tornai in quella casa, mi diressi verso l’enorme albero e, senza sorpresa, quell’abominio comparve come se fosse sempre stato lì, non si mosse, ed era esattamente uguale a come me lo ricordavo.

Dovevo essere forte.

Riporto qui quel nostro dialogo, per me indimenticabile.

̵ Diavolo! Sono stanco ormai di fuggire! Perché mi hai maledetto? Cosa mai ho fatto per meritare un tale trattamento e soffrire di queste angosce. Tu che mi hai tolto la fanciullezza! Tu che mi hai allontanato dai miei cari! Proprio tu, demonio, che hai attentato alla mia libertà, rispondimi: Perché?! ̵

Ero sicuro che mi stesse guardando senza occhi, ero sicuro che mi volesse magiare, invece, una voce, mista fra calma e abisso, risuonò delicata.

̵ Questa mia forma è stata tedio per te? Fu l’unico modo per seminare nel tuo corpo, ma non pare a me la tua vita sia così tanto suppurata. Indossi scarpe elegante, sei giunto a me in una carrozza e il tuo profumo non appartiene a queste montagne, quindi ora chiedo io a te, mio amato, quale mai torto avrò recato te, se non la salvezza dalla legna che tanto odiavi? ̵

̵ Tutto ciò che vedi è merito delle mie fatiche, non per gli incubi che tu mi hai donato. I miei averi dimostrano l’odio che io provo verso di te. Dimmi, abominio, ti ha divertito per tutti questi millenni essere artefice dell’odio degli uomini? Incupirli a tal punto da diventare succubi della tua influenza, fino a portarli alla mancanza di chissà quale minima virtù. Personalmente, io provo pietà verso te, poiché la tua forza è lo spavento e, non godi di azioni, ma solo di futili lavaggi mentali. ̵

A ripensarci ora, a cuor nefasto, non comprendo quale mia volontà si sia scatenata per poter conversare così con tale creatura. In nessuna mia opera ho mai mostrato tale ardore, il che è frustante, ma se tutto questo fosse stata la sola presenza di quella morte? Il polso mi duole, per liberarmi da tale maleficio deve finire questa nostra lite. La mia mente pare essere tornata in quella fredda e soleggiata giornata.

̵ Mi duole essere stato a te così causa di sofferenze, ma non scaricare a me il passato di coloro che ormai sono vaghi ricordi. La vita e la morte proseguono il loro girotondo, a nulla servirà indignarci di atti ormai sepolti nel ventre della Terra e, ad ogni modo, mai la mia presenza ha voluto essere scherno, odio o rancore verso voi. ̵

̵ Come potrei crederti? Se tutto ciò è vero, Perché solo io ti posso vedere?! Sono forse pazzo?! Sono stato costretto a tacere, perché ero certo che mi avrebbero rinchiuso! Ho accetto che esistessi solo nella mia testa, ma ora tu, parli, mi ascolti e rispondi. Qual è il tuo nome? Dammi almeno tale risposta, così che la mia logica, mia carceriera, possa darmi meno tedio. Illustrami, il vero motivo della tua presenza. ̵

Per tutto quel tempo, tu effettivamente non avevi mai mosso le labbra, eppure fu chiaro a me che la tua parola non era illusione. Immagino tu abbia dovuto imparare come noi, per comprenderci e così poter avere con noi a che fare. Quanta malignità ti ha mossa per saziare la tua gola.

Dopo secondi di silenzio, i quali parvero eoni, tanto da girarmi verso i miei lontani accompagnatori, i quali non credevano ai loro occhi per la mia stravaganza, mi risposi:

̵ A quella distanza non sentiresti il mio nome. Su, salì. ̵

Feci come tu mi comandasti: quando giunsi dinanzi alla quercia, sentì un freddo pungente provenire dalla corteccia, ma allo stesso modo, era così invitante e piacevole. Ritrovai in me un’energia che non avevo nemmeno da bambino. Ogni ramo fu un’avventura e quando giunsi a una certa distanza da te, ti osservai nuovamente, riscoprendo ancora una volta quanto tu potessi essere enorme, ma così misteriosa. Il desiderio di toccarti mi pizzicò più volte il dorso della mano, ma resistetti a tale tentazione. Ti voltasti verso me, poi, nuovamente verso le Alpi.

Seguì il tuo esempio e ne rimasi estasiato dalla vista che lì vi era: si notavano perfettamente le nuvole unirsi ai picchi delle montagne, così come gli uccelli erano meri puntini di inchiostro su quella tela celesta. La natura sembrava immobile, eppure si scorgeva sempre la vita mutare. Notai nei ruscelli lo zampillare dei pesci, l’attraversare di qualche capriolo o ancora l’attesa dei pescatori. Fui incantato dai camini sbuffanti dei villaggi vicini, così come quelli strani schiamazzi che giungevano a me, da una distanza tale da apparire impossibile. Il sole parve veramente un padre su quella quercia e faceva brillare le foglie come gemme di tutti i colori. Perfino la brezza montana pareva aver corpo e riuscivo a seguirla attraverso gli alberi, potevo immaginare quale gelido tepore o piacevole profumo potesse accompagnare. In quell’immensità, mi sentì come un insetto in confronto al mastodontico astrale che mi circondava, eppure, quella fu la prima volta che salì sulla quercia.

La prima volta in tutta la mia vita.

̵ È meraviglioso. ̵ Dissi

̵ Non ho nome, Edgar. Potresti chiamarmi Dio, Morte, Arte… sono solo epiteti per essere famigliare a voi. Immagino tu ora comprenda, dove George desiderava e compiva la sua indole. Sedeva col suo cavalletto e i suoi pennelli proprio lì. Aveva sempre il viso, di chi sacrifica con amore la propria vita e chiunque lo osservava, diceva che era solo un folle a voler dipingere in tali scomode posizioni. Non sei d’accordo anche tu? ̵

̵ Ma non avremmo il “Buio sul mondo.” o “Chiarore Montano.” Gli hai consigliato tu di salire, ma lo hai portata tu a compiere quella strage, lo hai ingannato e io desidero sapere perché. È questo il mio stesso destino? Ti mostri benevola e curiosa, ma il tuo aspetto è tutt’altro che invitante e se tu fossi Dio, allora, perché non essere subito schietto con i prescelti che tu desideri. Non mettermi alla prova tendendomi tranelli con la speranza che io dia giudizio, poiché so, che scompariresti. Desidero solo comprenderti, perché è mio egoismo comprendere me stesso. ̵

- Non ho mai ingannato George, nemmeno io gli posi mai per prima parola. Quando mi vide per la prima volta, stava montando lo stipite della porta d’ingresso. Mi si avvicinò come colto da una chissà quale benedizione; il giorno dopo tornò con i suoi pennelli e iniziò a dipingere alla base della quercia. Dopo poche settimane, si sedette accanto a me e iniziò a compiere i suoi capolavori. Quando il successo bussò alla sua porta, egli fu tutt’altro che soddisfatto e corse da me, chiedendomi per la prima volta se le sue opere, fossero degne del paesaggio che io miravo. Gli dissi di no, ma non perché fosse di chissà quale mal fattura, ma perché i suoi quadri, non erano questo paesaggio. Subito dopo allora mi chiese se la sua presenza avesse migliorato la mia contemplazione, ma ovviamente non fu così, per quanto nemmeno mi dispiacesse. George, capì la realtà. George concepì che il suo desiderio, non si sarebbe mai esaudito, così, si convinse che la sua intera esistenza e quella di chiunque altro fosse futile, poiché destinata a finire senza un apparente risultato. Il desiderio di George, fu stupirmi.

Nonostante questo, sua moglie si vantava, con le amiche e con i conoscenti, dei suoi quadri. I suoi simili lo vedevano come rivoluzionario, stravagante ed invidiabile, un uomo da cui prendere esempio, destinato ad entrare nei libri di storia. Certo, così è stato.

George uccise quella donna che tanto lo amava e la sua prole lo rinnegò, ma non ricordo, forse uccise pure i propri figli. Fu un uomo che non seppe sorreggere, modellare o indirizzare il mio dono. Ogni mortale che mi vede, rischia questa fine, poiché gli uomini sono insaziabili, le uniche persone che mi possono vedere, sono quelle che voi definite artisti, coloro i quali portano in grembo e sviluppano questo dono, appagando sentimenti e ricercando la mia promessa, l’immortalità. Così, vengono al mondo le vostre creature, grazie all’unione dell’ossessione e del desiderio.

Negli uomini vi è l’atto del Giungere, di crogiolarsi solo nella vittoria, eppure, vi è proprio lì la triste dipartita: è solo un attimo, un insulso piccolo e insignificante istante, dedito esclusivamente a partorire la mia prole, lasciando qualsiasi vostra illusione nel mondo degli specchi. Coloro che apprezzano la mia compagnia siedono immobili, o s’abbeverano nel silenzio della quiete, o ancora si perdono a contare le formiche, poiché lì vi è la mia essenza, la quale a voi, è veleno, per questo, finite per seviziarla.

Una volta dissi ad un certo Alighieri che aveva una visione critica interessante, ora ne parlano tutti in ogni dove, ad un tale, di nome Vincent, rivolsi commenti severi ed egli si tagliò un orecchio. Non mi diede alcun tedio, poiché furono loro scelte, così come i figli da loro cercati ed essi, sono per natura liberi, immacolati dall’essenza dei loro padri, già infiniti nel loro compimento.

Ecco perché ammiro queste lande, nient'altro mi colpisce se non loro ed ecco perché amo ascoltare voi uomini, poiché siete avidi di attenzioni. Per questo puoi Chiamarmi Morte, Dio, Paura, Gioia, Arte; Sono solo epitaffi, meri credi, solo per non sentirsi braccati da ciò che vi è oltre questa astratta paura. Un vostro vicino di nome Frederick, suppose che il vostro tempo, non è non di meno, di un circolo vizioso, la cui unica fuga è la passione e l’egoismo, al fine di rendere un vicolo un vialone, o una lanterna un lampadario, ma anche qui, quale vostra superbia vi sporca le maniche. Vi crogiolate nella sicurezza del vostro senso, sia fisico che mentale, ignorando qualsivoglia influenza il mondo ve ne dia e tu, mio caro Edgar, ne sei la prova. La tua vita è stata prigione fin ad adesso, ma ora che concepisci che in verità, ogni essere vive in sé, sicurezze e credi, che nessun condiviso potrà mai accogliere, che farai?

Voi tutti che necessitate di affetti, famigli, cari, come potreste mai accettare la così grave solitudine, tanto da essere inventori della storia, solo per collocare ossa ormai ridotte in polvere, a un qualche stato sociale. Non vi biasimo, anzi, io stesso ormai, per mia natura, sono legato a voi con amore, eppure, ai vostri occhi, io non alcun tratto tipico di famigliarità e ciò, mi aggrada. Nella mia essenza, non vi è chi comanda, ma solo un tacito accordo. Io sazio la mia essenza, donando a voi l’ingordigia che tanto desiderate e, grazie ad essa, giunge il miracolo, la meraviglia, che estranea voi dal fisico, donandovi l’etereo. Allora lì, come George e tanti altri, io potrò definirvi pari e non semplici passanti.

Per questo so già che parteciperai a questo gioco competitivo, perché sai stupirti come tutti, perché agli occhi dell’uomo io sono il massimo successo. Una bugia all’aroma di vaniglia.

La lista è molto lunga, sai, fin dagli albori dei vostri respiri… Tutti con la voglia di voler stupirmi, tutti a chieder pareri prima dei giudizi. La lista non finisce mai. Salvati! Tu devi salvarti, perché puoi, perché non sai che la vita dell'artista è un travaglio, è una rete di ambizioni continue, dove si può morire rimpiangendo ciò che non si ha ottenuto. Proprio io che necessito di voi, ti respingo, poiché fra tutti, tu mi hai ripudiato. Salvati dunque, continua a non volermi nel tuo petto. ̵

Sorrisi e mi posi comodamente su un ramo, presi una sigaretta, una delle mie preferite.

̵ Diavolo, ovvio che non tirerò indietro. ̵

̵ E allora anche tu sei la riprova di ciò che ho appena detto. ̵

Ascoltato ciò, scesi dall’albero e tornai alla mia carrozza. Mi sentì come infuso da un’energia sacra, mistica, come se una mano dal cielo si fosse passata su di me, concependo che qualsiasi cosa desiderassi, sarebbe stata mia. Ne fu erbio di gioia.

Solo stanotte, qui sotto questo lume, ora che sono vecchio, circondato dai miei libri, al ristoro di un freddo vento poiché fatico anche a chiudere questa finestra, comprendo la mia maledizione. La storia mi ebbe, il tempo si è preso mio fratello. Il denaro non è più un problema, ma non attrae a me nessun gusto, solo decadimento da riportare nelle mie poesie. Il mio nome non è più un’ombra, ma un mistico da raggiungere, così che anche le malelingue ne possano gioire e nutrirsene come serpenti, così che la mia essenza appaia non come un buon Whisky, ma come un fetido Gin da bagno.

Ora sei qui, Morte. Mi hai spremuto come il tuo ultimo limone sulla cassetta. Cosa saranno queste mie memori se non un’ombra nel buio. Potresti già rispondermi, poiché la mia abilità, il mio senso ed il mio animo sono tuoi strumenti in dono, ma non voglio tu dica nulla. Continua a guardarmi.

Ti prego, dopo tutti questi anni, non smettere di guardarmi, dimentica per almeno un istante i tuoi incantevoli paesaggi, così che io ne diventi parte tramite il vento che soffia sulla mia casa e non per il sibilo della mia pistola. I tuoi occhi sono meraviglia, il tuo corpo così invitante.

Grazie, Morte sull’Albero.

Distinti saluti, Edgar Burbè.

*Il Signor Edgar Burbè è morto in merito a una caduta dal secondo piano di casa sua il 3 novembre 1902. Il corpo è stato trovato prono, con le braccia tese in avanti, la mano destra con ancora fra le dita la piuma d’oca e i fogli della suddetta lettera fermi dal palmo della mano sinistra. La domestica, la quale la prima a rinvenire immediatamente il corpo, ha testimoniato, pur sotto giuramento legale che sul nome di Dio, che gli ultimi tre paragrafi della lettera del Signor Burbè sono stati scritti per mano di quest’ultimo dopo la suddetta caduta.

Nota scritta dal: Colonnello B. V. Arnold Fisìon